Nonostante gli avvenimenti elencati nell’articolo “PFAS: Storia e Contaminazione” non siano recenti, la scoperta dei PFAS in Italia e il pericolo che ne deriva è estremamente attuale.
La consapevolezza del problema risale al 2017, quando furono pubblicati i risultati delle analisi del Piano di Sorveglianza Sanitaria eseguite sulla popolazione residente in “zona rossa” da PFAS, in provincia di Vicenza.
Dopo lo studio del 2017 nacque un sentimento di pericolo tangibile. Nemmeno all’interno delle proprie case si era sicuri: “tutte le volte che si apre il rubinetto, si apre la casa a una violazione”, è così che i professori Luciano Zamperini e Marialuisa Menegatto descrivono la nuova realtà nel loro libro “Cattive acque, contaminazione ambientale e comunità violate”, concentrandosi sull’impatto sociale causato dagli eventi del 2017.
Una lettura approfondita del libro, ha portato noi ragazzi del team Mutans ad approfondire l’aspetto sociale dei PFAS al fine di migliorare il progetto. Così, lo scorso dicembre incontrammo i professori Zamperini e Menegatto, del Dipartimento di Filosofia, Sociologia, Pedagogia e Psicologia Applicata (FISPPA) dell’Università di Padova, al fine di approfondire come i PFAS abbiano agito a livello sociale e psicologico sugli abitanti delle province di Vicenza, Verona e Padova, ovvero le zone maggiormente colpite dall’inquinamento di queste molecole.
I professori Zamperini e Menegatto all’interno dell’Università di Padova si occupano di psicologia ambientale, ed in questo caso si sono incaricati di raccontare la terribile storia nascosta dietro ai PFAS, pubblicando il loro libro nel 2021, con la partecipazione di Telmo Pievani per la presentazione.
Ma come sono venuti a conoscenza del problema e perché hanno deciso di occuparsene loro? Lo scoprirono, come la maggior parte dei comuni cittadini, in seguito al Piano di Sorveglianza Sanitaria del 2017. Da studiosi, decisero poi di analizzare l’impatto psico-sociale sulla comunità e fondando il loro progetto di ricerca nel 2018.
Nel 2019 iniziarono ad intervistare i cittadini della zona arancione, al fine di creare il loro primo libro “Cattive acque”. Il testo fu da subito disponibile gratuitamente online in quanto i due professori ritennero necessario non limitare questo tipo di conoscenze.
Essi ritengono che sia un privilegio poter vivere facendo ciò che amano e studiando anche grazie al contributo delle persone, si sono sentiti in dovere di restituire ai cittadini i frutti dei loro studi in questo particolare ambito.
Spesso, aggiungono, ai disastri ambientali non si associano delle vittime precise; il loro compito invece è identificarle per rendere loro giustizia portando alla luce la loro sofferenza. Per le vittime, sapere di essere esposti a un pericolo, di vivere in un ambiente contaminato da una sostanza tossica, è una cosa che cambia la vita. Sapere di correre un possibile pericolo ha un impatto nelle persone ancora prima che escano i risultati delle analisi, mentre si è ancora nell’incertezza.
Inizialmente il gruppo Mamme NoPFAS era stato definito come un insieme di “casalinghe isteriche chimicofobiche”, invece i professori sono riusciti ad ampliare la loro voce e ascoltare le loro richieste.
Com’è cambiato il rapporto dei cittadini verso le istituzioni? Nel 2017, da parte di tutti i cittadini delle zone inquinate da PFAS, nacque un sentimento di sfiducia verso le istituzioni e gli studiosi, che tradirono le persone, non essendo state in grado di prevenire e proteggerle dal problema. Questa sfiducia costituisce un ostacolo gigantesco: una volta rotta la fiducia, tutto crolla e risulta poi difficile ricostruirla.
I PFAS hanno causato un disastro che è di origine umana, e questo genera un maggiore effetto psicologico rispetto ad un disastro naturale, perché nel primo caso si inizia a parlare di responsabili, di azioni svolte, di verità nascoste. Da parte delle istituzioni c’è stato un atteggiamento paternalistico verso i cittadini, non tutto è stato rivelato per evitare troppe preoccupazioni e allarmismo, ma dall’altro lato i cittadini hanno cominciato a diffidare sempre di più delle istituzioni e, per ottenere i dati di inquinamento da PFAS, hanno dovuto fare ricorso addirittura al Tar, chiedendosi cosa mai fosse stato loro nascosto.
Bisogna tenere in considerazione quindi che alla base rimane uno stato di diffidenza. Ad esempio, gli stessi Zamperini e Menegatto in quanto studiosi rappresentavano delle autorità da cui diffidare. I professori invece, una volta recati in luogo, hanno cercato di ricostruire la fiducia lentamente, presentandosi ai cittadini e presentando i loro obiettivi chiaramente. Secondo loro, è importante mantenere sempre il rispetto, anche se le parti dovessero trovarsi in disaccordo.
Anche quando iniziò l’installazione di filtri al carbonio all’interno degli acquedotti per purificare le acque potabili, le persone mostrarono diffidenza fin da subito, non credevano di poter essere realmente al sicuro ma continuavano a dubitare di bere acqua contaminata. Questo perché le azioni compiute dalle autorità vanno sostenute e devono coinvolgere i cittadini, soprattutto se le decisioni ricadono su di loro.
Come si fa a comunicare e instaurare un rapporto positivo con il pubblico, in modo da ottenere le informazioni necessarie? Non è stato semplice ricostruire la fiducia nemmeno per i professori, che suggeriscono di seguire il paradigma della citizen science, nella quale il cittadino non viene considerato come una semplice vittima ma come una risorsa che può dare delle informazioni importanti per completare la conoscenza di argomenti molto vasti, come lo è la problematica dell’inquinamento da PFAS.
I cittadini delle zone inquinate da PFAS hanno dovuto rintracciare le informazioni da sé, tanto che molte volte loro stessi sono più informati di alcuni medici di base sulle conseguenze da esposizione da PFAS. Ad esempio, una mamma raccontava ai professori che studiava tutto il giorno il fenomeno PFAS e le sue implicazioni, e così tante altre che erano poi le prime ad informare i loro stessi medici, quando ancora questa problematica era pressoché sconosciuta.
E come ci possiamo approcciare noi ragazzi MUTANS con il nostro progetto, visto che è coinvolto l’utilizzo di batteri ingegnerizzati?
I professori ci ricordano che non esiste un mondo ideale, che il consenso non è mai totale, qualsiasi cosa si faccia. Fa parte del gioco, quando si esce dall’accademia per andare nel mondo significa anche tenere conto della realtà di quello che alcune persone pensano e che potrebbero non essere d’accordo. Ad esempio, il mondo degli OGM probabilmente in passato fu raccontato erroneamente e per cui ancora oggi sentiamo le conseguenze.
I ricercatori non vanno dritti nel campo, ma ragionano per step, cercano di trovare i nodi di una rete comunicativa. Ad esempio, per la questione PFAS i nodi principali sono proprio i genitori. Quando è stato fatto il primo round del Piano di Sorveglianza Sanitaria, c’è stata un’adesione del 60%. Le domande quindi sono: il resto perché non lo ha fatto? Cosa pensa? Anche loro sono una parte importante della cittadinanza.
Come è cambiata la situazione tra la popolazione dal 2017 ad oggi?
Certamente c’è stato un apice della protesta nel 2017 per manifestare la propria rabbia, che si definisce costruttiva nel momento in cui porta dei vantaggi per la comunità, serve per fare rumore e attirare l’attenzione delle istituzioni.
Dal campo primario, che era la piazza della protesta, si è passati poi a una forma costruttiva di manifestazione, portando a dei risultati concreti. Alcuni genitori diventarono consulenti ai tavoli tecnici del Ministero per l’emanazione di leggi sui limiti dei PFAS; altri si recarono a Bruxelles; vennero organizzate riunioni territoriali (es. un incontro lo scorso anno con l’avvocato Billot dagli Stati Uniti d’America, che aveva seguito in passato il processo della DuPont); si crearono raccolte fondi per le ricerche, traduzioni ecc. La stessa professoressa Menegatto ha tenuto un corso di aggiornamento per 40 giornalisti sulla situazione PFAS, il tutto mentre era accompagnata da una mamma che ha portato la sua esperienza personale.
Si è costruito così un movimento sempre più complesso e significativo nel produrre risultati. È stato un processo che maturò nel tempo e ancora oggi continua a crescere. È importante notare e riflettere come abbiamo iniziato da una negazione del problema (le mamme definite come “casalinghe isteriche chimicofobiche”) ad arrivare ora davanti ad uno dei maggiori processi di disastro ambientale.
Autrice: Sabrina Salmaso