Telmo Pievani è un noto filosofo della scienza, biologo e divulgatore scientifico italiano. E’ particolarmente riconosciuto per i suoi contributi nel campo della teoria dell’evoluzione e della bioetica. Ha scritto e contribuito a numerosi libri e articoli, riguardanti i temi dell’evoluzionismo, la biodiversità e i temi etici legati alla scienza e alla tecnologia. È noto per la sua capacità di rendere accessibili e comprensibili al grande pubblico temi scientifici complessi. Pievani è anche un attivo divulgatore scientifico, partecipando regolarmente a conferenze e programmi televisivi per promuovere la comprensione e l’interesse per la scienza. Oltre al suo lavoro accademico e divulgativo, Pievani è professore ordinario di Filosofia delle Scienze Biologiche all’Università di Padova e ricopre incarichi di prestigio in diverse istituzioni scientifiche e accademiche. La sua influenza si estende oltre i confini della scienza, contribuendo al dibattito pubblico su questioni etiche e sociali legate alla scienza e alla tecnologia.
Qual è stata la motivazione che l’ha spinta ad avvicinarsi all’argomento dei PFAS?
Come evoluzionista, mi occupo anche di rapporto uomo-ambiente, spesso sono stato interpellato per inquadrare questo rapporto in un’ottica evoluzionistica. Tra gli argomenti che tratto troviamo climate change, riduzione della biodiversità e violenza ambientale, quest’ultimo comprende le vicende di inquinamento da PFAS. Inoltre, in quanto filosofo della scienza, mi interesso anche dell’interfaccia tra scienza e società, in particolare di come spesso la scienza costituisca sia l’origine del problema che parte della soluzione.
A proposito del libro “Cattive Acque”, al quale lei ha collaborato con i professori Zamperini e Menegatto, per quale motivo si è sentita la necessità di approfondire questo tema?
I colleghi, autori del libro, si occupano di psicologia sociale e ambientale. Quando si trattano queste tematiche è necessario evitare, come spesso accade nei media, di ragionare con un punto di vista ristretto, focalizzandosi solo su un’emergenza specifica e sui diretti interessati. Al contrario, uno psicologo sociale costruisce un progetto scientifico, raccogliendo dati statistici, conducendo interviste ed eseguendo comparazioni che permettono di ottenere un quadro serio e affidabile della situazione. In secondo luogo, esiste una fortissima motivazione etica: come descritto nella conclusione del libro, la vicenda ha pesantemente violato la fiducia dei cittadini. Il caso è molto delicato: infatti quello provocato dai PFAS è un inquinamento impercettibile, e quindi ingannevole. Ciò gioca un ruolo fondamentale nell’instaurazione della paura nelle persone, simile a quella provocata dalle radiazioni nucleari: è una contaminazione invisibile e indolore, di cui però si riscontrano gli effetti. Per tali ragioni, è essenziale rafforzare le modalità per ottenere un confronto democratico tra scienza e società.
Un ragionamento comune potrebbe essere quello di “se non lo vedo, allora non esiste. Secondo lei, l’invisibilità aumenta o riduce l’impatto psicologico di questo inquinamento?
Il punto è che si crea un effetto di discontinuità, cioè, finché non si è a conoscenza dell’effettivo pericolo questo passa inosservato, quando però la consapevolezza aumenta, allora la paura dell’invisibile diventa incontrollabile. Altro elemento fondamentale è la matrice che porta la contaminazione, ovvero l’acqua, un bene pubblico di vitale importanza. Quindi, oltre ad essere invisibile, il pericolo deriva da una fonte familiare, come il rubinetto di casa propria. La combinazione dei due elementi genera un effetto sociale di intensa preoccupazione.
Le prime notizie di questa violenza ambientale, in Veneto, sono esplose nel 2017. Sei anni dopo, qualcosa è cambiato?
Penso di sì, adesso il tema “PFAS” sta entrando nella consapevolezza collettiva, è anche diventato caso di studio. Ciò però non è ancora abbastanza, sorgono infatti due problematiche: mentre una radiazione nucleare ha una fonte precisa, i PFAS sono dappertutto, impregnano le filiere industriali di ogni oggetto presente nella nostra vita, come tessuti, conce, padelle, ecc… l’elenco è impressionante, l’intera civiltà produce PFAS, puntare il dito contro un unico colpevole è impossibile. La seconda criticità riguarda la legislazione vigente in materia ambientale: in certe realtà, come quella statunitense, il bando di molecole tossiche avviene soltanto una volta che la loro pericolosità è comprovata, mentre in UE vale il principio di prevenzione: non è ammesso il rilascio di sostanze fino a quando non se ne dimostra l’inoffensività. Questo è sicuramente uno strumento in più di cui noi, in quanto italiani, possiamo avvalerci. A questo punto ci chiediamo come è stato reso possibile lo sversamento di sostanze talmente nocive come i PFAS.
Rispetto a sei anni fa, le reazioni da parte della popolazione, all’epoca molto forti, sono variate?
Con la diffusione della consapevolezza, il conflitto aumenta. Vediamo infatti fronteggiarsi da un lato enormi interessi economici e dall’altro i cittadini che afferrano sempre di più la rilevanza del pericolo. Le evidenze mediche riguardo l’impatto dei PFAS e di tutti gli interferenti endocrini sulla salute sono in continuo aumento, rivelando effetti di tipo sistemico e diffuso su tutto l’organismo.
Riguardo la nostra proposta di un progetto che prevenga la diffusione in ambiente di questi inquinanti, ritiene che possa essere appetibile per le aziende che lavorano a contatto con i PFAS?
Le aziende sono sempre più interessate al mantenimento di una buona reputazione, all’aumentare della consapevolezza collettiva cresce anche la loro sensibilità nei confronti del problema. Trovare un modo per degradare i PFAS non significa necessariamente risolvere questo sistema economico, le biotecnologie non devono essere percepite come un alibi per non fare molto altro e trovare soluzioni alternative per prevenire la contaminazione. Oggi le aziende italiane devono anche rispettare la versione aggiornata dell’Articolo 41 della Costituzione, che disciplina la libertà d’impresa imponendo due limiti fondamentali: la salute umana e la salute dell’ambiente, garantendo la combinazione delle due.
Sul tema degli OGM c’è ancora molto scetticismo. Come si inserisce l’utilizzo delle biotecnologie per risolvere un problema ambientale quando spesso queste tecniche si basano sull’utilizzo di tali microrganismi?
E’ importante riuscire a trasmettere la percezione delle biotecnologie come alleato nella lotta contro gli inquinanti ambientali. Pur sviluppando un sistema nel quale gli organismi modificati siano confinati, nell’opinione pubblica gli stereotipi rimangono, a meno che la questione non venga narrata in un’ottica più propositiva.
Qual è l’approccio vincente per interessare anche i più giovani all’argomento?
Ai giovani, categoria sempre più sensibile al cambiamento climatico, la vicenda deve essere narrata in modo avvincente, all’interno del tema globale del cambiamento climatico, spostandosi poi su un argomento più territoriale come quello della contaminazione PFAS in Veneto.
Ci sono ulteriori aspetti da considerare nella presentazione del nostro progetto alla società?
E’ importante riuscire a coinvolgere tutti i soggetti interessati, senza tralasciare nessuno. I cittadini di tutte le estrazioni sociali sono da coinvolgere nella conversazione. La figura dello scienziato non deve pretendere di calare soluzioni dall’alto, al contrario deve cercare di instaurare un dialogo che porti ad una soluzione che possa, nei limiti del possibile, soddisfare tutte le parti.
Autrice: Alice Ghiaroni