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PFAS: STORIA E CONTAMINAZIONE

    Se ci seguite su Instagram, avrete sicuramente visto che la problematica che vogliamo trattare quest’anno, come team 2024 sono i PFAS. Ma cosa sono questi PFAS?

    La parola PFAS è un acronimo che sta per “sostanze perfluoroalchiliche” (in inglese “perfluorinated alkylated substances”), ovvero acidi organici con almeno un legame carbonio-fluoro. La struttura chimica e la natura dei legami permette una forte stabilità sia alle alte temperature che ai processi di degradazione. La famiglia delle PFAS comprende diverse classi di composti, secondo l’OCSE, ne esisterebbero almeno 4730 tipi! Tra i più famosi, ricordiamo il PFOA (acidoperfluoroottanoico) e il PFOS (perfluorottanosulfonato). 

    Ma quindi, a cosa servono e perché sono stati inventati?

    I PFAS sono composti chimici utilizzati in campo industriale, data la loro capacità di rendere i prodotti impermeabili all’acqua e ai grassi.

    Il primo PFAS “inventato” è stato il politetrafluoroetilene (PTFE), che in realtà è stato scoperto casualmente nel 1938 da Roy Plunkett, mentre lavorava per l’azienda DuPont: durante un tentativo di fabbricazione di un nuovo clorofluorocarburo da usare come refrigerante per i cicli a compressione, ottenne inaspettatamente il PTFE, descritto come “estremamente resistente al calore e antiaderente”. Successivamente Kinetic Chemicals brevettò il prodotto nel 1941, e registrò il nome commerciale “Teflon” nel 1945. 

    Questa invenzione fu un successo: a partire dagli anni 50’ si sono iniziate a produrre le diverse tipologie di PFAS in tutto il mondo, dimostrando di rappresentare una scoperta rivoluzionaria per il settore industriale, tanto che venivano (e vengono ancora) usati per la produzione di davvero tantissimi prodotti. 

    In Italia, tra le aziende che li producono troviamo la Miteni, fondata nel 1965 a Trissino, in provincia di Vicenza (Veneto). Quasi da subito l’azienda si è occupata di creazione di PFAS usati per impermeabilizzare i tessuti per l’azienda tessile Marzotto inizialmente con il nome di RiMAr (Ricerche Marzotto).

    Non tutto però era perfetto come poteva sembrare inizialmente. Nel 1998, l’Agenzia per la Protezione Ambientale degli Stati Uniti (EPA) si allarma per i potenziali rischi dei PFAS, che chiama prodotti “forever chemicals”: sono composti di origine umana che “non si degradano mai una volta rilasciati e si accumulano nei nostri corpi”. In uno studio effettuato lo stesso anno sui topi, quando la femmina incinta continuava a ricevere dosi regolari di PFAS, la maggior parte della prole moriva entro quattro giorni.

    Successivamente, nel 2002, il Dipartimento di Sanità del Minnesota (MDH) ha svolto delle indagini nelle zone critiche, scoprendo una “contaminazione delle acque sotterranee che copre oltre 150 miglia quadrate, influenzando le forniture di acqua potabile di oltre 140.000 residenti del Minnesota. Sono stati prelevati campioni da oltre 2.600 pozzi privati e sono stati emessi 798 avvisi di acqua potabile”.

    Passano anni prima che in Europa si decida di agire. È solo nel 2006 che viene avviato dall’Università di Stoccolma il Progetto Europeo PERFORCE, con il fine di stabilire la presenza di perfluorati nelle acque e nei sedimenti dei maggiori fiumi europei. Solo allora si scopre che in Italia, il Po presenta livelli più elevati rispetto a quelli degli altri fiumi europei.

     Nonostante ciò, passano ancora molti anni affinché si approfondisca la situazione italiana. Nel 2011 (sono passati ben 13 anni dalle prime preoccupazioni dell’EPA in America!), l’evidenza di una situazione di potenziale rischio porta ad una convenzione tra il Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare (MATTM) e l’Istituto di Ricerca sulle Acque (IRSA) del Consiglio Nazionale per le Ricerche (CNR). Prende avvio uno studio sul rischio ambientale e sanitario associato alla contaminazione da PFAS nel bacino del Po e nei principali bacini fluviali italiani.

    Per lo studio vengono prelevati anche campioni di acqua destinata al consumo umano in più di 30 comuni nella provincia di Vicenza e nelle zone limitrofe delle province di Padova e Verona. Le indagini evidenziano un inquinamento diffuso di PFAS, a concentrazione variabile.

    Perché la concentrazione è maggiore in queste zone? Nel 2013, l’Agenzia Regionale per la Protezione Ambientale del Veneto (ARPAV) scopre che la fonte principale di inquinamento è l’azienda chimica Miteni, a cui viene attribuito il 97% dell’inquinamento rilevato nell’area veneta, poiché «gli impianti di depurazione non sono in grado di abbattere questo tipo di sostanze, in quanto non dotati di tecnologia adeguata».

    Il 28 maggio 2014 viene costituito il Coordinamento Acqua Libera dai Pfas (Legambiente più altre dodici associazioni), inizia la campagna di sensibilizzazione, e vengono depositate due denunce contro ignoti alle Procure di Vicenza e Verona. Nel frattempo avviene l’applicazione di filtri al carbone attivo agli acquedotti per impedire bloccare l’entrata dei PFAS nelle case dei cittadini, con i costi che gravano sugli stessi.

    Ma non basta. La preoccupazione ormai divampa e le diverse associazioni locali chiedono maggiori controlli. Tra luglio 2015 e aprile 2016 viene avviato un biomonitoraggio a campione su 257 soggetti residenti nella zona contaminata e 250 soggetti residenti in Comuni veneti non interessati dalla contaminazione delle acque per consumo umano. Emerge che la concentrazione di PFOA nei soggetti esposti è significativamente superiore a quella dei non esposti.

    In seguito a questo controllo, viene mappata la zona e nel gennaio 2017 inizia il Piano di Sorveglianza Sanitaria sulla popolazione: vengono ricercate nel sangue le concentrazioni dei 12 Pfas più conosciuti. Inoltre, vengono eseguiti esami ematici di funzionalità renale, epatica, metabolica e tiroidea. Studi precedenti avevano rivelato che in seguito all’esposizione a tali composti le funzionalità di alcuni organi o metaboliche potevano essere alterate. Lo studio è stato dolorosamente confermato, poiché il 60% dei soggetti coinvolti hanno effettivamente mostrato alterazioni causate dall’esposizione da PFAS. 

    Dall’arrivo di queste terribili notizie, ha iniziato a dilagarsi un forte terrore psicologico tra gli abitanti delle zone altamente inquinate da PFAS, che si sentono intrappolati nella situazione fin dall’interno delle loro stesse case. Abbiamo approfondito questo aspetto con i professori Zamperini e Menegatto del Dipartimento FISSPA dell’Università di Padova, che tratteremo nel nostro prossimo articolo.

    Tra le varie reazioni, si è creato un gruppo di mamme, accomunate dalla preoccupazione per la salute dei figli in questa nuova realtà: sono le Mamme NoPFAS. Entrando nel loro sito (che invitiamo a controllare per tantissimi approfondimenti), compare la scritta: “Tutto è iniziato nel 2017, quando abbiamo ricevuto le risposte delle analisi sulla ricerca dei PFAS nel sangue dei nostri bambini a seguito dell’avvio del biomonitoraggio proposto dalla Regione Veneto: da allora la nostra vita è letteralmente cambiata”. 

     Al giorno d’oggi il mondo sta ancora cercando di capire come comportarsi verso queste sostanze in diversi livelli: per esempio la creazione di alcune tipologie di PFAS sono vietate da febbraio 2023 in seguito a una decisione della Commissione Europea, inoltre sono stati inseriti filtri sugli scarichi delle aziende e negli acquedotti, infine gruppi di ricerca in tutto il mondo da anni cercano di capire come riuscire a degradare le molecole di PFAS. È proprio in quest’ultimo campo che sta cercando di agire il nostro team, al fine di risolvere un problema che, come visto, è di origine totalmente umana e per molti anni è stato sottovalutato. 

    Autrice: Sabrina Salmaso, team Mutans

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